Pressioni per far giocare Iaquinta, un pentito: "La ’Ndrangheta intervenne per aiutare suo padre Giuseppe"

18.11.2017
10:30
Redazione

Iaquinta non può stare in panchina, deve giocare. È l’idolo di tutti i cutresi, campione del Mondo sotto il cielo di Berlino nel 2006; l’uomo con cui scattarsi la foto, il simbolo del riscatto del loro paesino in provincia di Crotone. E così il clan si sarebbe attivato, in due occasioni, per intimidire e minacciare le società che non lo schieravano in campo. Prima l’Udinese, nel 2007; poi la Juventus, nel 2012. Questo dice il pentito numero tre del maxi processo alla ’ndrangheta Aemilia. Salvatore Muto, 40 anni, imprenditore edile calabrese, ha deciso di collaborare con la giustizia a un passo dalla sentenza che lo vedeva di nuovo alla sbarra e di raccontare le sue verità, come riporta Il Resto del Carlino. Quello che emerge dai verbali delle sue prime deposizioni – accuse ancora tutte da verificare – getta ombre pesanti sulle figure dell’ex bomber della Nazionale e del padre Giuseppe Iaquinta (entrambi sono imputati, con diverse ipotesi di reato, nel processo in corso a Reggio Emilia). «In una occasione nel 2012 durante un incontro al nord, Alfonso Paolini, il boss Nicolino Sarcone, Muto e Francesco Lamanna (capo della consorteria a Cremona, ndr) si sono parlati per intervenire a favore di Giuseppe Iaquinta che aveva il problema che il figlio Vincenzo non veniva schierato dal suo allenatore nella Juventus», si legge nelle carte. Paolini e Iaquinta senior, secondo il pentito, «erano molto amici con Luciano Moggi e andavano a trovarlo a Siena (Monticiano) dove Moggi ha una tenuta di cavalli». Dice Muto, però, che «quando Vincenzo aveva avuto problemi con la Juventus, non avevano potuto utilizzare questo canale perché Moggi non era più nella Juventus. Per questo è stato interpellato il clan emiliano e il boss Nicolino Sarcone si voleva impegnare per risolvere questo problema di Iaquinta». Muto, però, afferma di non sapere «se vi sia stato un effettivo intervento». Tranchant l’ex dirigente Luciano Moggi: «Non conosco nessuno di questi signori e di certo non sono mai venuti nel mio paese. Ma fa sempre comodo fare il mio nome... ».

IN SOSTANZA, Ernesto Grande Aracri (fratello minore del boss Nicolino) avrebbe «mandato ‘il figlio di compare Nunziato’ con alcuni suoi uomini, a minacciare l’entourage della società di calcio dell’Udinese affinché facesse giocare oppure mettesse in vendita Vincenzo Iaquinta, cosa che effettivamente è avvenuta», si legge nei verbali. E, quasi come una ricompensa, una volta arrestato Ernesto Grande Aracri avrebbe chiesto un paio di scarpe da calcio e i due Iaquinta glielo avrebbero fatto arrivare in carcere). «Le dichiarazioni apparse sulla stampa in merito alla cessione nel 2007 del giocatore Vincenzo Iaquinta sono destituite di ogni fondamento – fa sapere Cs Udinese in una nota –. Udinese Calcio rigetta qualsiasi affermazione apparsa sui media che rimandi a possibili pressioni ricevute in merito alla cessione di propri giocatori». Anche il difensore dei due Iaquinta, l’avvocato Carlo Taormina, smentisce categoricamente e annuncia che chiamerà Antonio Conte e la famiglia Pozzo in aula a testimoniare, se necessario.

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