Clemente di San Luca: "Il Napoli è uno stato d’animo collettivo! Chi non lo sente non lo può capire: quello che sto per scrivere non fornisce alibi"

14.11.2019
23:50
Redazione

Napoli in crisi

Notizie Calcio Napoli - Ci risiamo. Basta poco per tornare sulla terra. Appena il corso concreto delle cose ci riporta alla realtà, riscopriamo che la passione si fonda su una ipocrisia. Venerdì 1 novembre, prima del precipitare degli eventi, avevo postato il primo stato della mia vita su whatsapp: «Il Napoli è uno stato d’animo collettivo! Chi non lo sente non lo può capire!». So bene che questo stato d’animo è sempre più basato sull’ostinata ipocrisia di non riconoscere la obiettiva mercificazione dei sentimenti derivante dalla inesorabile commercializzazione del calcio (come di gran parte degli aspetti della vita, nella civiltà capitalistica).

Sgombriamo subito il campo da ogni possibile equivoco. Quello che sto per scrivere non fornisce alibi. È aberrante autocensurarsi solo perché dire quel che si pensa potrebbe costituire alibi per qualcuno. Faccio le considerazioni che seguono in base a quanto osservato, senza secondi fini.

Primo. Gli arbitraggi di Juventus e Inter nel campionato in corso lasciano all’osservatore attento e neutrale la nitida sensazione che gli arbitri, nel loro complesso, siano strumento, tanto raffinato quanto arrogante, di una precisa strategia. Si ha forte la sensazione della farsa, per la sistematicità delle decisioni illegittime, che paiono assunte ‘scientificamente’ per favorire un disegno predefinito. Naturalmente si tratta di percezioni, non ho prove. Constato, però, che per effetto di decisioni arbitrali illegittime il Napoli ha 11 punti in meno: con il Cagliari (3), il Torino (2), la Spal (2) l’Atalanta (2), il Genoa (2). C’è un nesso fra questo e la situazione in cui versa ora la squadra? Sicuramente c’è, perché i risultati condizionano gli umori di tutti: giocatori, stampa, pubblico.

Tuttavia, la responsabilità di questa situazione va ricercata altrove. Ho appreso dell’inizio della dolorosa vicenda del rifiuto della squadra di rispettare il diktat di AdL dalla radio in macchina, di ritorno dalla partita col Salisburgo. Fin qui ho assistito in silenzio alla evoluzione dei fatti, volevo provare a capire. La piena consapevolezza della richiamata ipocrisia – che ci si concede per sopravvivere, per non consegnarsi definitivamente alla solitudine, per accettare il compromesso esistenziale meno faticoso – impone di valutare la vicenda, non con i crismi della passione, ma soltanto dal punto di vista ‘professionale’. Perché (ahimè!) di questo si tratta. I comportamenti degli attori protagonisti non vanno valutati sollecitando, populisticamente, la parte più ‘panciosa’ dei nostri istinti. Usciamo fuori degli equivoci: si tratta di ragionare sulla base dell’unico parametro adoperabile. Che non è quello dell’amore per la maglia o per la città, ma esclusivamente quello ‘professionale’. Chi ha sbagliato sotto questo profilo?

Secondo. Così come, fino a due anni fa, non si potevano non riconoscere gli indubbi meriti di AdL, con la medesima obiettività oggi si deve rilevare che in gran parte, se non quasi integralmente, la responsabilità dell’accaduto è sua. Anzitutto non fa alcunché per risultare simpatico. Il che non è obbligatorio, s’intende. Ma lo diventa nel momento in cui l’antipatia si esprime con dichiarazioni improvvide, che minano alla radice l’affectio societatis di tutti i componenti della comunità in cui opera l’azienda Napoli. Non perde occasione per dimostrarsi ostile alla città di cui la squadra è emblema, e per stigmatizzare con modi grevi i comportamenti altrui.

Si deve riconoscere, oggettivamente, che: a) senza di lui saremmo finiti nelle mani di un lestofante; b) seppur curando in via esclusiva i suoi interessi (facendo molto bene il suo mestiere di impresario), ha indiscutibilmente consentito al Napoli uno stabile salto di qualità; e comunque c) non pare essere in vista alcun facoltoso imprenditore disposto a rilevare la società per fare meglio. Epperò, tutto ciò considerato, non si può non rilevare che adesso il Napoli sta pagando gli errori che ha commesso nell’ultimo anno e mezzo. E, quel che più conta, con AdL e con la squadra, li paga la città, che – sia chiaro – soprattutto lui non rappresenta, ma che, gioco-forza, per proprietà transitiva si sente da loro rappresentata.

Ha preso un allenatore che nella sua brillante carriera, più che allenare, ha saputo magistralmente gestire grandi giocatori, mettendoli nelle condizioni di esprimere al meglio le loro straordinarie capacità individuali, e che nei fatti, almeno fin qui, si è dimostrato non del tutto adatto per quelli che abbiamo, diventati fortissimi per esser stati ‘intensamente’ guidati. E lo ha preso perché, annebbiato dalla sua esuberante vanità, ha rinunciato a trattenere forse il più forte allenatore oggi su piazza (benché, sul piano umano, si sia poi rivelato biasimevole traditore di se stesso).

Terzo. Ancelotti, invece, è simpatico. E vanta uno straordinario palmares. Ma la squadra è imbelle, ha perduto l’anima. È priva di una identità. Spifferi dal di dentro sembrano raccontare di giocatori disorientati, che avvertono di non essere adeguatamente allenati e manifestano sconcerto per sentirsi poco guidati. E certo, a prescindere dai discutibili contenuti tecnico-tattici, le parole e le decisioni di AdL non facilitano il recupero di anima e identità! Alcune partite sono state buone, talvolta la squadra è sembrata aver rinvenuto la tenuta. Il gioco, però, s’è visto solo a sprazzi. Da tifoso continuo a dargli  credito, ma da osservatore distaccato rilevo che è in evidente confusione. Tutto sembra affidato alla improvvisazione creativa: il che – guai a chi lo nega – è importantissimo, ma non basta. Il gioco è un’altra cosa: deve massimizzarla, ma non può risolversi nella sola creatività.

Quarto. In moltissimi consideriamo immorale che uno, pur bravissimo e persino unico nel suo mestiere, guadagni cifre astronomiche. Figuriamoci quelle – di cui leggiamo sconcertati – pagate per saper toccare (foss’anche divinamente) un pallone! Ma tant’è. Molti benpensanti che invadono lo spazio mediatico s’affannano a richiamare l’etica aziendale, la correttezza nella relazione di lavoro, la quale si risolverebbe nel fatto che, quando il datore di lavoro decide una cosa, il lavoratore deve obbedire. Una prospettiva quasi medievale, che confonde l’etica aziendale con la libertà assoluta del padrone: a definire i diritti e i doveri reciproci di datori e suoi dipendenti è il diritto del lavoro, sono i contratti. E nessun datore può pretendere prestazioni contra jus. Sotto il profilo giuridico, non basta la qualificazione unilaterale del ritiro imposto come «costruttivo», giacché in sede giudicante potrebbe essere considerato «punitivo» (come francamente sembra), e dunque ‘illegale’.

Conclusioni. A tradire l’azzurro, lo stato d’animo collettivo di cui dicevo, è l’intera vicenda. Per il semplice fatto che c’impedisce di sognare, dolorosamente presentandoci il conto del dover accettare che, almeno in questo frangente, non si può fingere e si deve metter da parte quella ‘confortante’ ipocrisia. Sotto il profilo ‘professionale’, Presidente e società meritano il giudizio più severo. Hanno obiettivamente fallito la loro missione ‘istituzionale’, e cioè l’armoniosa conduzione dell’azienda. Ad Ancelotti, almeno finora, sembra doversi imputare soprattutto di non aver esibito il tratto dell’uomo di polso. Quanto ai giocatori, non sono tenuti ad esprimere autenticamente la nostra passione. Chi lo fa, naturalmente, si lascia apprezzare. Chi no, si merita l’indifferenza.

Che fare? Molti invocano il buon senso. È ovviamente indispensabile. Ma non so se sia sufficiente. Sbagliare è umano, perseverare è diabolico. Forse, per provare a prendere il 4° posto, si dovrebbe avere il coraggio di cambiare allenatore. Si tratta di capire cosa prevarrà in AdL, se il timore di una consistente perdita economica, oppure il suo orgoglio vanitoso.

Nel nostro stato d’animo azzurro, la speranza e l’auspicio sono che l’epilogo sia ritrovare l’armonia perduta, disprezzando il cinismo proprio della cultura capitalistica: quello ben espresso dal detto «tutti hanno un prezzo». Non è così. Non tutti ce l’hanno. La nostra fede non ce l’ha.

Fonte : Guido Clemente di San Luca per CalcioNapoli24
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