Selvaggia Lucarelli su Libero in prima pagina: "Che brutta sceneggiata napoletana l'addio a Pino Daniele"
Vuie sit’ pazz. Se potesse parlare oggi Pino Daniele direbbe questo, perché il teatrino trash che si sta mettendo in piedi dopo la sua morte è a dir poco vergognoso. E tutti, dai fan più esagitati alla parte della sua famiglia che è entrata in polemica con i figli del cantante, stanno contribuendo a questo scempio imbarazzante. Ognuno ha il diritto sacrosanto di lasciare questo mondo come desidera, di volere un funerale che gli somigli, di scegliere la terra che lo seppellirà, che a volte è quella che ha calpestato durante l’infanzia, come nel caso di Lucio Dalla, a volte è quella che l’ha adottato, come avverrà nel caso di Pino Daniele. Lucio Dalla era nato a Bologna e lì aveva sempre vissuto. Era un uomo affabile ed estroverso, che amava mescolarsi alla gente, girare per i vicoli della sua città, chiacchierare con i bolognesi al bar. Il suo funerale è stato come la sua vita: nella sua città, con gli amici, la folla, il giro del feretro sui colli bolognesi. Pino Daniele era un uomo schivo, «uno a cui non piaceva essere osannato», ricorda il fratello Nello. Aveva dedicato a Napoli una delle più belle canzoni della musica italiana, Napul’è, ma poi qualcosa con la sua città doveva essersi rotto. O forse, banalmente, la sua riservatezza soffriva l’esuberanza dei fan partenopei, le dimostrazioni plateali d’affetto, forse cercava un luogo lontano del clamore, un po’ di pace. Forse per lui i mille colori di Napoli erano troppi. Era andato a vivere a Magliano, in uno di quei poderi nella Maremma in cui si arriva dopo tanti incroci, in aperta campagna, un posto in cui si perdono gli amici che vengono a trovarti e forse anche le ambulanze che devono salvarti la vita. Doveva averlo valutato, lui che aveva il cuore malato, che vivere laggiù, in caso di emergenza, non avrebbe reso semplici i soccorsi, ma non doveva importargli molto. Chissà, forse anche la sua morte è il prezzo pagato per la sua riservatezza. E il rispetto per questa sua riservatezza dovrebbe essere il più importante tributo che gli deve chi lo ha amato. Più dei concerti in piazza, più delle veglie, delle candele, dei cori, dei flash-mob.
Osceno - Quello che è accaduto ieri fuori e dentro la camera ardente è osceno. I familiari sono stati costretti a interrompere le visite perché qualcuno ha pensato bene di fare un selfie con la salma. Del resto, «se gira il video di Mango che muore sul palco, perché non posso postare la foto col morto?» deve aver pensato l’eroe 2.0. Una decisione sacrosanta, quella dei familiari. Le persone fuori hanno cominciato a protestare rumorosamente, come se quello fosse l’Olimpico, non un luogo di dolore e morte. Come se ad appartenere ai fan fosse l’uomo nel suo privato, non quello pubblico, non le sue canzoni, le emozioni che ha regalato, l’eredità artistica che ha lasciato. L’arroganza della gente ha poi ha toccato il suo picco con l’arrivo di D’Alema, il quale ha superato il primo varco per accedere alla camera ardente, ma poi ha preferito andar via perché sommerso da fischi e urla becere come «Saluta quer bastardo di Prodi!», che nulla avevano a che fare con quel momento e quel luogo. Stava entrando per dare l’ultimo saluto a un suo amico e gli è stato impedito perché qualcuno ha pensato bene di gridare alla casta. Una vergogna.
GUARDA IN ALLEGATO LA FOTO DELLA PRIMA PAGINA DI LIBERO DI OGGI