"Giovedì giochi con me ad Agnano, Careca s'è fatto male!" L'avv. Ferrante racconta: "Maradona indossò la 9, era fuori forma e non si sentiva più degno della 10. Era il marzo '91"

29.11.2020
10:40
Redazione

Ultimissime calcio Napoli - Marzo '91, il racconto dell'avvocato Luigi Ferrante: le partite di calcetto di Maradona

Ultimissime Diego Armando MaradonaInnamorato del pallone. Anche quando tutto, intorno a lui, precipitava rapidamente e drammaticamente. Il gioco del calcio, unico disperato antidoto al suo mal di vivere. Marzo 1991, inseguito dalle accuse per droga, Diego Armando Maradona deve difendersi in Procura. Con l’avvocato Vincenzo Maria Siniscalchi, nel vecchio Castel Capuano, c’è un giovane penalista, Luigi Ferrante.

Maradona a calcetto, il racconto dell'avvocato Luigi Ferrante

L'edizione odierna di Repubblica Napoli intervista Luigi Ferrante e racconta:

Dopo un interrogatorio del pool antidroga, per le nuove accuse di traffico internazionale di cocaina che gli rivolge un pentito, Pietro Pugliese (che dice di esser stato anche un sicario della camorra), Maradona e Ferrante stanno per lasciare palazzo di giustizia. Ma la polizia chiede loro di temporeggiare: «Ci sono centinaia di tifosi là fuori, non li conteniamo, per favore, aspettate in ascensore». Lì, l’allora trentenne Ferrante, non può fare a meno di dire: «Mamma mia, ma è sempre così?». Il campione dei due scudetti abbozza un sorriso triste: «Gigi, è tutta la mia vita che è così…». E subito dopo: «Avogado, giochi a calcio?». E lui: «Sì, ma insomma, per divertirmi eh…». «Bien - afferma Maradona - giovedì giochi con me. Ho una squadra di calcetto con Taglialatela e Careca ma Antonio si è stirato un muscolo e non ci sarà. Giochi tu. Andiamo ad Agnano».

Maradona e l'avvocato Ferrante

Luigi Ferrante, oggi affermato penalista, lo racconta ancora con emozione. Come andò, avvocato? «Fernando Signorini, preparatore atletico dell’argentino e suo vero amico, mi disse di andare sotto casa, in via Scipione Capece e di seguire l’auto dove si trovava il calciatore. Raggiungemmo i campi di calcetto di Agnano e andammo negli spogliatoi per cambiarci. Lui tirò fuori le seconde maglie ufficiali del calcio Napoli, rosse, belle e particolari. Mi diede la 5, quella di Ricardo Alemao, lui indossò la 9 di Antonio Careca. Era da settimane che non metteva più la 10. Perché, ma non lo ha mai detto ufficialmente, essendo un po’ fuori forma e in quella situazione, non se ne sentiva più davvero degno».

Diego Armando Maradona gioca a calcetto

Chi c’era in quella partita così particolare? «La nostra squadra era composta da Pino Taglialatela in porta, Luca, un allora fortissimo ragazzo delle giovanili del Napoli, il suo elettricista di fiducia e io. Dall’altra parte c’erano quattro talentuosi e giovani giocatori di calcetto e il figlio del suo barbiere. Ne venne fuori una partita intensa e Diego non la voleva proprio perdere. Giocava con gioia e quando andavamo sotto nel punteggio scartava l’intera squadra avversaria e ci riportava in vantaggio. Mi colpì questa sua felicità nel giocare a pallone, quella che provano i bambini che ancora non sono gravati dai pensieri della vita adulta. Fantastico».
C’è un altro particolare di quella partita che racconta il carattere di Diego. «Era un leader assoluto. Io iniziai molto contratto, capirete: giocavo con Maradona. Taglialatela in porta parava l’imparabile e a un certo punto presi palla e lanciai Diego. Lui, mentre agganciava il pallone per poi scaraventarlo in rete gridò: “Bella palla, bella!”. Un elogio a un operaio del calcio quale ero io…Nella partita incoraggiò tutti e non rimproverò mai i compagni per gli errori di gioco. Compresi perché gli altri calciatori professionisti lo adoravano».

A fine gara, negli spogliatoi, Maradona raccolse le maglie da terra… «Sì, che straordinaria persona, umile e disponibile. Quasi fosse un magazziniere. Oh, Maradona! Mise tutto a posto, ci ringraziò e andò via». Era giovedì. Domenica lo attendeva Napoli-Bari, la partita in cui l’antidoping lo trovò positivo mettendo fine alla sua storia azzurra.

«Non andai lì con la macchina fotografica e dunque non avevo alcun ricordo di quella esperienza. Il caso ha voluto che molti anni dopo in un bar della Torretta vidi una foto con Diego, me e un bambino dopo quel match. Mi venne in mente che a fine partita si era radunata una folla e alcuni avevano scattato delle foto. C’era anche il barista che ne aveva approfittato per immortalare suo figlio accanto a noi. Ho solo potuto fare una foto sulla foto - dice Ferrante - così come non ho mai chiesto la maglia a Diego. Ne ho una con dedica, ma del Newell’s Old Boys, solo perché me la fece avere dall’Argentina tramite il suo manager Carlos Franchi».

«Quell’episodio di Agnano - conclude - svelò il vero animo di Diego: amava il calcio in ogni sua espressione e anzi era stanco delle pressioni esasperate del football professionale. Era innamorato del pallone. Quando glielo hanno tolto ha cominciato a morire».

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