La storia di un tassista-calciatore amato da Maradona
La testa del tassista è pesante. Parcheggia l’auto, lascia che il motore giri a vuoto per qualche minuto, il crepitio del diesel fa tremare tutto l’abitacolo. È stanco e sono le due di notte. Anni che va a letto tardi e adesso ha sempre sonno. A un certo punto, quando sente che è arrivato il momento giusto, gira la chiave. La macchina si spegne. Anche questa è fatta. Nessun rimpianto. Appoggia la fronte al volante, si gode l’aria fresca della notte, la radio senza più ordini e strade da raggiungere. Il sogno di ogni uomo è la libertà. Chiude gli occhi e un nero più intenso li accoglie, diventano pietre che scendono fino al fondo del mare. Nient’altro che il calore dell’acqua. Poi la portiera posteriore si apre, cigolando. In un attimo si richiude. «Amico?» una voce, accento sudamericano «amico, sei sveglio?» argentino, per la precisione. Il tassista prova a muovere i muscoli ma non ci riesce, risponde come può, con la voce che arriva da dentro la pancia e poi esce stanca dalla bocca. «Turno finito, prenda un altro taxi.».
«Ma io voglio proprio questo».
«Mi dispiace, ho finito il turno».
«È stato un turno duro?».
«Molto».
«E ora che pensi di fare?».
«Mi inventerò qualcosa».
«Sei sempre un mago, no?» l’accento argentino è furbo, la voce appesantita da un qualche tipo di fatica.
«I maghi fanno le magie, io guido un taxi».
«Questa devi usarla spesso, si sente dal tono che hai quando la dici».
«Chi sei tu?» il tassista vorrebbe girarsi ma, stesso discorso di prima: i muscoli sembrano diventati densi come la calce impastata. «Jorge non mi riconosci? Sono io».
Il tassista si ricorda la sua arma segreta. Il retrovisore. Ci mette dentro a fatica i due occhi storditi dal sonno. I capelli del nuovo passeggero sono ricci, più dei suoi, neri, foltissimi. La faccia è quella di un ragazzino troppo giovane per quella voce roca. Il viso sembra bianco per quanto è pulito, gli occhi vispi raccontano cose che devono ancora vedere. Ma quei tratti gli sono tremendamente familiari.
«Non può essere...» il tassista esita il tanto che basta a far riprendere la parola al nuovo cliente.
«Sì, dài che sono io. Parti, Jorge. Ho una fame da lupo, portami a mangiare qualcosa, ti supplico». «E che vuoi mangiare?». «Quello che vuoi, basta che non sia cucina francese, quella la odio. Partiamo, su». Il tassista rimette in moto la macchina con le ultime forze che ha nelle mani. È un gesto di routine, girare la chiave, l’abitudine a saper rimettere in moto le cose ferme. La strada scorre lenta fuori dal finestrino. San Salvador è deserta, il mare che non c’è costeggia la strada, il cielo limpido, la luna piena. È un tempo ideale per vivere. «E dimmi, ti piace ancora quella musica da pazzi, Jorge?».
«Dici quella del Camarón?».
«Quella che mi facesti sentire in California, quell’estate».
«Certo».
«Perché non la metti un po’? Ho voglia di stare bene».
Il tassista non se lo fa ripetere, inserisce il ciddì, il suo preferito. Volando voy invade l’abitacolo. La voce del suo migliore amico lo fa stare bene. Mentre canticchia muovendo solo le labbra guarda di nuovo nello specchietto. Il viso del passeggero ora ha un accenno di barba, è più puntuto.
«Si sta bene, qui dietro, però. Mi sento a casa in mezzo al chiasso».
«In che senso?».
«Non lo vedi, lì fuori, che allegria?».
Il tassista gira la testa e vede i fumogeni uscire dalla Bombonera, Barrio de la Boca, Buenos Aires. Rallenta. È sorpreso. Non sbigottito o impaurito, vuole solo vedere. Tanto lo sa, lui può sempre vedere «le cose che non ci sono».
«Già» adesso il tassista sorride, sa che la strada è quella giusta.
«Tu lo sai che significa, Mágico, quando ci sono quarantamila, cinquantamila persone che gridano solo il tuo nome».
«Ti trema l’intestino».
«L’intestino, le palle, i polpacci, il cuore. Tutto quello che possiedi dove passa il sangue trema. Perché tu lo sai che quella gente è lì per te e gli altri dieci sono solo le dita delle tue mani, lo sai che il cervello sei tu».
«Ed è da te che vorranno i pensieri».
«Qui a Baires ero a casa mia, ho dato ogni mio metro d’amore. Ho vinto il campionato con la squadra per cui tifava mio papà e per cui ho sempre tifato io. È stato un trionfo, Mágo, guarda là, guarda che matti!».
Un traffico pazzesco invade la carreggiata nel senso di marcia opposto. È la Avenida del Libertador del centro di Buenos Aires, paralizzata da un fiume d’auto che strombazzano. Gente fuori dai finestrini con le maglie gialloblù del Boca, bandiere, cori che hanno come testo solo il suo nome: Diego-Diego-Diego. Di fronte al taxi, invece, strada sgombra, si tira dritto. Però a un certo punto il tassista gira a sinistra, verso il centro: «Voglio portarti a vedere un posto» fa al passeggero e lo guarda nello specchietto, cerca la sua approvazione. Ma trova un volto sofferente, gli occhi stretti.
«Che succede?» gli chiede.
«Amico, fammi scendere qui, la caviglia mi fa un male cane. È rotta.» «Come fai a dirlo?».
«Ma non hai visto che fallo mi ha fatto, quel figlio di puttana basco?».
Il tassista si accorge di aver infilato la macchina in una strada chiusa, muro di fronte, mura ai due lati. Bloccati.
«E adesso, che si fa?» chiede al passeggero. «E adesso fai retromarcia. Riavvolgi. Ricominciamo. Andiamo via da qui, Barcellona non mi è mai piaciuta».
Il tassista obbedisce, va veloce in retromarcia, esce dal vicolo, sfreccia via sulle Ramblas. Un altro sguardo al retrovisore.
«Dove ti porto, Diego?».
I capelli ricci sono una montagna, ora. Il viso più adulto. Ha anche qualche chiletto in più, a dire il vero, ma il tassista non glielo dice. «Guarda che ti sento che lo stai pensando».
«Sei ingrassato!».
«Sarò pure ingrassato, ma girati di là, mira boludoche ti combina il grasso!».
Il tassista sta cominciando a divertirsi, guarda fuori dal finestrino. Una luce fortissima, quasi mezzogiorno, erba verde, pettinata di fresco. C’è un barrilete cósmico che corre come un fulmine in faccia agli inglesi vestiti di bianco. Ne salta uno, si gira, ne salta un altro. E siamo a due. Una voce invade l’abitacolo all’improvviso, arriva forte dallo stereo da cui prima cantava il Camarón. È quella di Victor Hugo Morales, telecronista sudamericano, la colonna sonora del gol più bello della storia. «Tocca in avanti il pallone, avanza sulla destra il genio del calcio mondiale. Può toccarla per Burruchaga sempre Maradona...» e sul campo verde Diego sta letteralmente facendo impazzire la nazionale inglese, guizza come il vento, ne salta altri due ed entra in area «...genio, genio, genio, ta-ta-ta-ta-ta-ta!». Diego salta il portiere e la appoggia in rete. «Goool! Goool! Goool! Voglio piangere! Dio Santo, viva il calcio! Gooolazooo! Diegooo! Maradonaaa! C’è da piangere, scusatemi! Maradona, in una corsa memorabile, la giocata migliore di tutti i tempi! Aquilone cosmico, da quale pianeta sei arrivato?» e mentre la voce continua a urlare il suo nome, a invocare Dio, le lacrime e la bellezza del calcio, il passeggero si arpiona al sedile del tassista, gli appoggia la mano sinistra sulla spalla: «E non dimenticarti di questa» la agita un po’ nell’aria, «quella de Dios!».
Ridono beati, il tassista strombazza, il passeggero si tiene la pancia con le braccia.
«Campioni del Mondo, Jooorge!».
«Lo so, ti ho visto quella notte, facevo il tifo per te!».
«E non è finita qui, Mágico».
«Dove si va, ora?».
«Nella mia seconda casa».
«Conosco la strada» dice il tassista, che ormai guida spedito superando i limiti di velocità. Tanto la polizia, quella vera, non c’è stanotte. Non esiste.
Lo stadio San Paolo di Napoli è illuminato a giorno. I cori si sentono fin da qui, dove il tassista ha parcheggiato l’auto. Il parabrezza è il loro schermo, da lì vedono tutto benissimo. I riflettori illuminano il prato, l’impianto trema a ogni sillaba scandita dai tifosi. È un inferno di amore.
«Qui mi sono divertito molto, questa città è una carezza che ti accoglie come se ci fossi cresciuto fin da bambino. Basta dargli tutto e loro ti daranno molto di più. Vincere uno scudetto qui è come vivere cento carriere di un calciatore che trionfa in una grande squadra. E io ne ho vinti due, immagina un po’» il passeggero ora si fa più serio, lo stadio San Paolo si spegne di colpo, il pubblico ammutolisce, sembra sparito, buio totale, «immagina cosa può voler dire vivere in un posto che diventa il teatro delle tue passioni, ma pure delle tue debolezze...» ammutolisce anche il passeggero.